Cos'è l'osteoartrosi
Entrare nel mare magnum dell’artrosi è complicato e potrebbe sembrare addirittura impossibile pensando alla frase: “E chi non ha l’artrosi?”. Intanto dal punto di vista semantico già il termine artrosi è fuorviante, suggerendo l’impressione di un evento inevitabile associato all’invecchiamento e alla degenerazione tessutale che ne consegue.
Molto più saggiamente, in questo caso, il mondo anglosassone utilizza il termine osteoarthritis sottintendendo la componente infiammatoria che a tale processo partecipa in modo sostanziale.
La prevalenza è maggiore nelle donne (20,2% vs 12,4%) e aumenta, come prevedibile, con l’età. Il picco massimo nelle donne si raggiunge tra i 75 e gli 84 anni con incidenza pari al 54%, nell’uomo dopo gli 85 anni con incidenza del 53,5%. L’osteoartrosi rappresenta un gruppo eterogeneo di condizioni con istopatologia e alterazioni radiologiche comuni.
Coinvolge prevalentemente le articolazioni portanti, comprese le ginocchia, le anche, la colonna vertebrale cervicale e lombosacrale, i piedi. Altre articolazioni comunemente colpite includono le interfalangee distali, le interfalangee prossimali e la carpometacarpica. È sempre stata ritenuta una patologia degenerativa determinata dall’usura a carico della cartilagine all’interno delle articolazioni sinoviali.
Attualmente il quadro è cambiato e la malattia viene interpretata come un processo infiammatorio che interessa tutte le componenti dell’articolazione. Oggi è evidente che l’osteoartrosi è causata da un’iniziale degenerazione cartilaginea per perdita dell’equilibrio tra processi catabolici e riparativi, con innesco di una flogosi cronica all’interno della quale si possono avere episodi di acuzie.
Una delle cause più comunemente considerate per l’insorgenza di osteoartrosi è sempre stata l’obesità, ritenendo il carico elemento principale per l’alterazione cartilaginea.
Il paziente obeso ha una resistenza leptinica per cui alti livelli di leptina circolanti e intrarticolari innescano un processo flogistico con liberazione di citochine e metalloproteasi. Nei soggetti obesi vi è anche un eccesso di leptina libera circolante rispetto ai soggetti normopeso. La leptinoresistenza negli obesi determina l’azione proinfiammatoria della leptina stessa.
Il ruolo dell’adiponectina è attualmente controverso: secondo alcuni protettivo, secondo altri proinfiammatorio, ma questo può dipendere anche dalle caratteristiche dei gruppi studiati e dalla gravità della malattia.
La visfatina, invece, esercita sicuramente solo azioni pro infiammatorie e cataboliche della cartilagine articolare; i condrociti stessi sintetizzano visfatina nell’osteoartrosi. Su altre adipochine gli studi in corso non sono ancora giunti a conclusioni certe. L’intervento delle adipochine nella genesi e nel mantenimento dell’osteoartosi valida, dunque, il processo infiammatorio che accompagna la malattia.
L’osteoartrite viene classicamente suddivisa in forme primarie e forme secondarie. L’artrosi secondaria si riferisce a un processo patologico che si innesca su un’articolazione che ha subito un’alterazione solitamente traumatica, per cui può interessare anche soggetti giovani.
La definizione di artrosi primaria è meno chiara: è sicuramente connessa con l’invecchiamento, tanto che i soggetti più anziani sono i più colpiti, non ha cause apparenti e si riscontra in articolazioni apparentemente sane.
Una parte fondamentale del trattamento è costituita da interventi non farmacologici che tendono a intervenire sullo stato funzionale e per alleviare il dolore:
◗ l’educazione del paziente;◗ le applicazioni calde e fredde;
◗ la perdita di peso;◗ l’esercizio fisico;
◗ la fisioterapia;◗ la terapia occupazionale;
◗ lo scarico comune di alcune articolazioni (per esempio, ginocchio e anca).
La terapia farmacologica intrarticolare comprende l’iniezione di corticosteroidi e la viscosupplementazione, che possono alleviare il dolore e hanno un effetto antinfiammatorio. La viscosupplementazione con acido ialuronico a differenti pesi molecolari (da 400.000 a 6 milioni di dalton) è efficace se le alterazioni anatomiche non sono troppo gravi e se vi è ancora un minimo di base cartilaginea.
La terapia farmacologica orale inizia con il paracetamolo per il dolore lieve o moderato, senza infiammazione apparente. Se la risposta clinica al paracetamolo non è soddisfacente o la presentazione clinica è infiammatoria, si prendono in considerazione i FANS. L’artroprotesi è il punto terminale di una patologia non più controllabile.
Consolidato il fatto che sindrome metabolica e obesità sono associate e l’obesità è il maggiore indiziato per l’insorgenza di osteoartrosi, appare evidente che sindrome metabolica, obesità e osteoartrosi fanno parte della stessa problematica e il trattamento del medico di segnale è quello che maggiormente può andare a incidere direttamente su tutti e tre i parametri.
Consideriamo l’attività fisica: la prima scusa accampata dagli obesi con artrosi è che il dolore e il peso impediscono loro il movimento.
Possiamo individuare un’attività fisica che si adatti al soggetto: per chi non ha problemi a camminare si consigliano le passeggiate veloci giornaliere a partire anche solo da 15 minuti per arrivare a 45 minuti o un’ora;
per chi ha problemi alle anche o alle ginocchia si consigliano la bicicletta o cicli di ginnastica da camera valutando poi nel tempo se il calo ponderale, liberando le articolazioni dal carico, può consentire di passare alla camminata o alla corsa. In questi casi non va dimenticata l’attività in piscina, soprattutto per coloro che sanno nuotare: un toccasana per i dolori e le contratture muscolari.
Il tutto può essere associato a esercizi in palestra o in piscina per migliorare l’elasticità artromuscolare. Riguardo alla correzione delle abitudini alimentari, seguiremo lo schema classico della Medicina di Segnale tenendo conto che la regolazione delle adipochine, leptina per prima, permetterà di tornare ai livelli fisiologici evitando che il surplus inneschi il loro effetto proinfiammatorio.
Il problema più importante, che è poi quello che blocca il paziente e per il quale ricerca un rimedio immediato, è il dolore. Questo dato va considerato attentamente perché se nella fase iniziale non riuscissimo a controllarlo vanificheremmo tutta l’impostazione del lavoro.
Molti sono abituati ad assumere paracetamolo o oppioidi, FANS o steroidi con alta frequenza per cui bisogna programmare un periodo di “svezzamento” per ridurre e poi abolire l’uso di tali farmaci.
Utili in tal senso sono curcuma, boswellia, fitobasto ribes nigrum, solldol, dimetilglicina, bromelina, infiaVin, hyalurOn, ossoVin, condroitin-solfato e glutammina-solfato. Inoltre trattiamo le fasi contratturali con il calore e le fasi flogistiche con il ghiaccio. Una dieta povera altamente trasformata come quella occidentale favorisce l’incremento della PCR, un fattore che aumenta il dolore.
Il consumo di alimenti altamente trasformati può danneggiare anche i mastociti, che diventano ipereccitabili causando mal di schiena ma anche emicrania, fibromialgia e dolore neuropatico.
Di riscontro frequente, soprattutto nell’anziano, è il deficit di magnesio indotto da carenze alimentari nonché dall’uso indiscriminato degli inibitori di pompa protonica: ebbene la carenza di magnesio facilita emicrania e dolori muscolari, per cui si raccomanda il consumo di spinaci, bietole, semi di zucca, mandorle, fagioli neri, avocado, fichi e banane.
Altro deficit è quello di vitamina D, un evento normale negli anziani, che determina ipersensibilità dei nervi con abbassamento della soglia del dolore. Nei pazienti obesi anche la resistenza insulinica aumenta la percezione del dolore: una dieta a basso indice glicemico, cioè ricca di polifenoli, fibre, frutta, verdura, grassi sani e buone proteine ha un impatto positivo sulla percezione del dolore.
Bibliografia: Medicina di Segnale