Siamo abituati a pensare a noi stessi come a un corpo
invece che come a energia interiore
Guardiamo nello specchio e crediamo di vedervi chi siamo. Viviamo in una cultura che rafforza quest’idea. Ogni giorno siamo bombardati da messaggi che ci ricordano di profumare, radere, lavare, nutrire, riposare e adornare il corpo per essere felici, sani e realizzati. A molti di noi questa filosofia è stata insegnata fin dall’infanzia e perciò ci trattiamo in sostanza come una confezione dal contenuto irrilevante. E comprensibile perciò che resistiamo all’idea di avere anche un importante Io invisibile e inaccessibile alle esigenze del mondo esterno.
La storia dell’uomo che cerca fuori casa, sotto un lampione, la chiave perduta illustra bene il mio argomento. Quando una passante gli chiede se può aiutarlo a cercare, l’uomo si mostra molto grato. Dopo mezz’ora di ricerca infruttuosa la donna chiede: «Ma dove le è caduta la chiave?», e l’uomo risponde: «L’ho persa a casa». «E allora perché la cerca fuori in strada sotto un lampione?», chiede la donna. L’uomo risponde: «Perché a casa mia non c’è la luce, allora sono uscito per cercarla qui dove ci si vede meglio».


E proprio quello che facciamo ogni volta che cerchiamo al di fuori di noi stessi le soluzioni ai problemi. Viviamo, pensiamo, nel nostro foro interiore, in cui risiede la nostra umanità, eppure continuiamo a cercare le risposte fuori di noi perché non riusciamo a illuminare l’interno con il pensiero. Resistiamo al principio che il pensiero sia tutto ciò che siamo perché ci sembra più facile guardare fuori.
Ci sembra più facile definire la nostra identità sulla base della confezione esteriore, e non delle qualità interiori che non si possono vedere, toccare, odorare, gustare o udire. La scelta di quella che sembra la strada più facile è una delle ragioni principali della resistenza all’idea che il pensiero sia la sostanza della nostra umanità. Inoltre quando gli altri si percepiscono o definiscono tutti in questo modo, è più facile seguirli che andare controcorrente. Lo noto con i giovani del mio quartiere. Quando presento loro la possibilità di pensare a se stessi separati dal gruppo, mi dicono: «Ma allora sembrerei eccentrico, bislacco».
Si preoccupano di come li vedono gli altri, non sapendo che i loro stessi pensieri sono una componente essenziale della loro identità. Non si rendono conto di essere liberi di elaborare il mondo come preferiscono e spesso scelgono la strada che appare più facile, conformarsi. Molte persone scelgono di comportarsi come gli altri, senza prendere in esame la propria realtà senza forma. Forse non sono disposti ad accettare le critiche che toccano in sorte inevitabilmente a chi pensa con la propria testa.
Possono resistere all’idea di vedersi come qualcosa al di là della forma, perché si sono totalmente identificati con un approccio alla vita fondato su di essa. Per cambiare debbono ridefinire se stessi e le loro priorità, dandosi il permesso di osservare il proprio modo di essere e sentire attuale senza assumere un atteggiamento difensivo o voler giudicare. Quando osserviamo la nostra situazione attuale senza dare di essa un giudizio critico, facilitiamo il passo successivo.
Identificandoci con la forma, possiamo vivere nel mondo delle cose, escludendo quelli che ci possono sembrare pensieri spiacevoli o indesiderati. L’acquisizione di beni materiali può diventare un modo per dimostrare che siamo capaci di vivere, mentre releghiamo in soffitta la nostra natura incorporea. Agiamo come se non avessimo una responsabilità per i pensieri e i sentimenti degli altri, pretendendo che trovino la felicità nei beni materiali che diamo loro. Ci giustifichiamo dicendo: «Lavoro tanto, pago i conti, dò loro tutto che vogliono, che altro posso fare?» Ecco che cosa: possiamo essere attenti a quel che pensano, discutere con loro delle loro aspirazioni, toccarli in quello spazio divino al di là della forma e incoraggiarli a sperimentare la vita a modo loro.
Ci diamo da fare per accumulare, raggiungere obiettivi, acquistare ricchezza e beni materiali. Identifichiamo il successo con la quantità di cose, senza conoscere mai la felicità interiore. Andiamo avanti arrancando affannati, non arriviamo mai. Credo invece che siamo qualcosa di più, dentro la forma siamo intelligenza, proprio come l’essenza della rosa è un’intelligenza che trasmette il profumo e l’aspetto del fiore. Non potremo mai creare noi stessi una rosa. Abbiamo bisogno della forza vitale nella forma che chiamiamo rosa. Analogamente, abbiamo bisogno di entrare in contatto con l’intelligenza o la forza divina dietro la forma che siamo e con quella delle altre persone con cui entriamo in rapporto.

Forse resistiamo a farlo solo perché non ci è familiare questo aspetto della nostra umanità e ciò che non si conosce fa paura. Chiediti allora se questa ti sembra una ragione valida per rimanere esclusivamente nel mondo della forma. Nel mondo della forma, incolpare gli altri rappresenta una comoda scusa per il fatto che la nostra vita non è esattamente come vorremmo. Diamo al mondo la colpa delle nostre malattie, alla borsa quella delle nostre condizioni finanziarie, attribuiamo al panettiere la responsabilità del fatto che siamo grassi, e ai nostri genitori quella della nostra personalità.
Nel mondo del pensiero invece, siamo responsabili di tutto. Siamo liberi di pensare ciò che vogliamo e siamo ciò che pensiamo. Non ciò che mangiamo, ciò che pensiamo. Se rifiutiamo la responsabilità di aver creato il nostro Io attuale, allora ignoreremo il fatto dell’autocreazione e vivremo esclusivamente nella forma che abbiamo ereditato. Se sappiamo che il pensiero è capace di guarire, di creare una vita felice, e di influenzare positivamente la vita degli altri, allora rispondiamo alla vita con le nostre facoltà. Allora viviamo responsabilmente. Quando cominciamo a prestare attenzione anche al mondo interiore dei pensieri, ci trasformiamo, diventando persone più responsabili. Guardati dentro per scoprire qual è il tuo atteggiamento interiore verso l’idea di essere più responsabile nei riguardi del mondo.
Il sogno può piacerci tanto che non vogliamo neppure prendere in considerazione l’idea che se ci risvegliassimo avremmo molto di più. Scegliamo perciò di rimanere addormentati, inconsapevoli della grandezza che ci aspetterebbe al risveglio. Quando continuiamo a fare quel che conosciamo non corriamo rischi. Non rischiando non dobbiamo cambiare. Evitiamo di cambiare, e possiamo attribuire la responsabilità del fatto che non cresciamo a una varietà di circostanze esterne. È un circolo vizioso di apparente conforto che ci fa sentire al sicuro, anche se bloccati, e ci mantiene in una situazione raramente davvero vantaggiosa per noi o per gli altri.
La resistenza è un elemento fondamentale della paura del cambiamento. Quando ci avviciniamo a tematiche metafisiche o spirituali, ci troviamo di fronte a una lunga tradizione di modelli di pensiero che si fondano sulla premessa che si può credere solo a quello che si vede; tale presupposto diventa una barriera che ci impedisce di guardare in alcuna direzione tranne quella in cui sembrano puntare i nostri sensi. Ritengo che si debba trasformare quest’ostacolo in un trampolino, trasformando quel pensiero in « Credere per vedere, lo vedrò solo quando ci crederò».
(Wayne W. Dyer.) Credere per vedere



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