Oggi, dire che l’età e il sesso sembrano ininfluenti contrasta con le idee della nostra cultura.
Eppure, il sospetto di attrazione puramente fisica, nasconde il segreto della sorgente dell’occhio percettivo. Perché esso è l’occhio del cuore. Qualcosa si smuove nel cuore, aprendolo alla percezione dell’immagine racchiusa nel cuore dell’altro.
Oggi quasi non riusciamo più a credere a queste relazioni basate sull’affetto del cuore.
Abbiamo imparato a vedere le cose con l’occhio dei genitali. Non sappiamo immaginare rapporti basati sull’immaginazione.
Per la nostra cultura, il desiderio deve per forza essere inconsciamente sessuale, le relazioni accoppiamenti, le confessioni sincere, sotto sotto, ma dettate da manipolazioni seduttive.
Nell’attrazione reciproca, in tutte le coppie che hanno sperimentano il proprio vero Sè, si scaturiva da una visione condivisa; si erano innamorate di una fantasia “mentore”. Io divento un mentore quando la mia immaginazione sa innamorarsi della fantasia di un altro.
Una componente erotica è necessaria, così come è sempre stata fondamentale nell’insegnamento da Socrate in poi, come lo è ancor oggi, anche se oggi o è eliminata dall’apprendimento attraverso il computer oppure è guardata esclusivamente con l’occhio genitale e vista come violenza, seduzione, molestia o bisogno di qualche impersonale ormone.
L’occhio genitale non rivela ciò che va cercando l’AnimA. Proviamo a esaminare, per esempio, le rubriche degli annunci personali.
Superata la descrizione sociologica – conformazione fisica, colore della pelle, abitudini sessuali, professione, età, stato civile, ecco che incomincia a emergere la Verità dell’Immaginazione.
Lunghe passeggiate, cucina, umorismo, ballo, coccole e parlare, parlare; e poi le preferenze musicali, i progetti per le vacanze, i gusti e, soprattutto, i sogni.
Cerchiamo qualcuno che accompagni l’AnimA, non un compagno di letto.
Un annuncio personale rivela «la sacralità degli affetti del Cuore». Un annuncio personale è un sogno romantico.
Vedere è credere, credere in ciò che si vede, e questo fatto conferisce immediatamente il dono della fede alla persona o alla cosa che riceve lo sguardo. Il dono della vista è superiore ai doni dell’introspezione. Perché tale vista è come una “benedizione”: trasforma.
La terapia promuove la grande illusione dell’introspezione.
Predica e pratica la cecità di Edipo. Edipo si interrogava su chi fosse veramente, come se si potesse trovare l’AnimA, il nostro vero essere, con la riflessione che si autointerroga.
La superstizione terapeutica poggia su un’altra falsa credenza: l’idea che l’AnimA sia celata alla vista, nascosta, sotterrata nell’infanzia, rimossa, dimenticata e dunque possa essere redenta soltanto con l’introspezione attiva nello specchio della mente.
Ma gli specchi dicono solo mezze verità. La faccia che ti vedi allo specchio misura la metà delle dimensioni della tua faccia vera, è solamente la metà di quella che presenti e che gli altri vedono.
La ricerca terapeutica del vero essere sarebbe forse più efficace se seguisse scrupolosamente la massima posta, non a caso, esiste la forma passiva: percipi, «essere percepiti».
Noi siamo fenomeni offerti alla vista. «Essere» è in primo luogo essere visibili. Il lasciarci passivamente vedere apre una possibilità di benedizione. Perciò noi cerchiamo amanti e mentori e amici, affinché possiamo essere visti, ed essere vivi.
Ma non tutto di noi è da subito visibile e lo troviamo in zone riservate e ombre invisibili.
Si manifestano nelle reticenze, nelle circonlocuzioni e negli eufemismi, negli occhi ombrosi, distolti, nei lapsus, nei gesti esitanti, nei ripensamenti, nelle omissioni. Non c’è niente di ovvio in una faccia e niente di semplice in una superficie.
Il mentore (una mente consapevole) percepisce le pieghe di una complessità, quelle curve dentro/fuori, sotto/ sopra dell’implicito che sono la verità dell’immaginazione in ogni sua forma, per cui possiamo ben definire l’immagine:
il come globale del presentarsi di una cosa. Eccomi, sono qui, proprio davanti ai tuoi occhi. Riesci a leggermi?
Parliamo sociologichese, non la lingua dell’AnimA. Per leggere un’espressione occorre un numero di parole pazzesco.
«La maggior parte della gente non sa “dire” come è la persona che ha davanti, ma l’essere incapaci di “dire” non implica che non si sia capaci di vedere» scrive il filosofo José Ortega y Gasset.
Per vedere l’AnimA occorre avere occhio per le immagini, occhio per lo spettacolo, e avere il linguaggio per dire ciò che vediamo. I nostri fallimenti in amore, nelle amicizie, in famiglia spesso sono riconducibili a fallimenti della percezione immaginativa.
Quando non guardiamo con l’occhio del cuore, allora sì l’amore è cieco, perché in quei casi non sappiamo vedere l’altro come portatore di una Coscienza di verità immaginativa.
Può esserci il sentimento, ma non la vista; e come la vista si appanna, così si appannano la simpatia e l’interesse.
Ci sentiamo soltanto irritati, e ricorriamo a concetti diagnostici e tipologici della mente creando casino su casino dettati solo dalla mente quando il gioco x la tua Coscienza è finito da un pezzo… basterebbe essere sinceri da subito e riconoscerlo…
Ma tuo marito non ha «un complesso materno»; piagnucola, ha aspettative, spesso è come paralizzato.
Tua moglie non è «in preda all’Animus»; è perentoria, discute usando la logica, non si vuole dare per vinta. Il chi tuo marito o tua moglie sono, coincide con il come essi sono, non con ciò che le tipologie e le categorie dicono che essi sono.
Alcune forme di terapia cercano di correggere la miopia immaginativa incoraggiando l’«empatia» e la «identificazione controtransferale sintonica».
E promuovono anche lo psicodramma e i giochi di ruolo per aiutare i pazienti a vedere in trasparenza certe concezioni tipologiche e ad arrivare al cuore dell’altro.
Mettiti nei panni di tuo marito, di tua moglie, di tuo figlio. Immagina quello che provano, come sarebbe essere loro. Immagina! Forse, se guardi meglio con l’immaginazione, riuscirai a scoprire un cuore di verità nel loro comportamento. La percezione immaginativa richiede grande pazienza.
Come dicevano gli alchimisti dei loro complicati, frustranti esperimenti: «Nella tua pazienza è la tua AnimA». Come reggere altrimenti l’incomprensibile comportamento dell’altro, quella stranezza, quella lentezza?
Il fisico atomico Edward Teller imparò a parlare solo dopo i tre anni, tanto che si pensava fosse ritardato. «Poi, un giorno, Edward incominciò a parlare, con frasi complete, non singole parole, come se si fosse risparmiato la fatica in attesa di avere qualcosa da dire».
Il codice dell’AnimA James Hillman