Neurotrasmettitori tutti placebo?

La serotonina è un mediatore cerebrale del buon umore e accompagna una sana e normale ideazione cognitiva.

I principali farmaci utilizzati in terapia

Sembrano essere rivolti a compensare una carenza di alcuni neurotrasmettitori cerebrali: serotonina, noradrenalina e dopamina.

La teoria che accompagna tale approccio presenta ancora ampie zone grigie e molti dei fenomeni connessi (per esempio il fatto che i benefici di un trattamento si percepiscano solo dopo svariate settimane dal suo inizio) non trovano spiegazioni convincenti neppure da parte dei più entusiasti prescrittori.

La serotonina è un mediatore cerebrale del buon umore e accompagna una sana e normale ideazione cognitiva. Una sua carenza – così ci viene detto – può alterare in modo marcato non solo l’umore ma anche il regolare flusso delle idee e dei pensieri.

Una tale alterazione suggerirebbe, quindi, l’uso dei “nuovi” SSRI (gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina a livello delle sinapsi). La noradrenalina invece, molto simile come azione all’adrenalina, potrebbe causare – se carente – una sorta di rallentamento psicomotorio.

Per tale motivo si suggerisce di privilegiare la terapia con IMAO (inibitori delle monoamminossidasi) quando la sintomatologia prevalente vada in questa direzione. La dopamina, infine, è presente in alcuni dei circuiti di ricompensa del nostro cervello.

Una sua carenza, oltre a esporre il paziente al rischio di malattia di Parkinson, può generare depressione soprattutto con sintomi di tipo anedonico: disinteresse verso il mondo, assenza di piacere in qualunque attività. È frequente trovare pazienti depressi con quest’ultimo tipo di sintomi dopo lunghi periodi d’uso di amfetamine o di droghe stimolanti.

In questo caso vengono spesso usati anche i “vecchi” triciclici che agivano su tutte e tre le categorie di molecole coinvolte. Chi ha letto lo splendido libro di Irving Kirsch I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito (13) nutrirà sicuramente forti dubbi sulla reale correlazione tra patologia depressiva e utilità dei farmaci.

Studiando l’effetto placebo lo scienziato (noto psicologo e docente universitario) è andato ad analizzare tutti i lavori presentati dalle aziende farmaceutiche alla FDA (Food and Drug Administration, l’ente americano deputato all’approvazione dei farmaci da immettere in commercio) scoprendo una realtà ben poco raccontabile:

nonostante alle aziende fosse stato concesso di presentare solo i lavori con buon esito (una concessione inaccettabile, su cui la comunità scientifica sta discutendo), la differenza tra farmaco e placebo non superava mai il valore del 25%.

Il dato è sconvolgente

Significa solo una piccola differenza tra i due gruppi: la potenza dell’effetto (effect size) è dovuta per il 75% all’effetto placebo. Stando a quanto afferma Kirsch, anche con principi attivi diversi come i triciclici, gli IMAO o addirittura gli ormoni tiroidei o le sostanze favorenti la ricaptazione della serotonina tale differenza di effetto (25/75) resta curiosamente inalterata.

“Ma come?”, si stupisce lo scienziato, “uguale effetto sia con un inibitore sia con un favorente la ricaptazione? Non dovrebbero avere un effetto opposto?”.

Con molta durezza Kirsch assegna la differenza del 25% al cosiddetto “effetto placebo svelato”: chi partecipa alla sperimentazione, infatti, appena manifesta effetti collaterali importanti capisce di essere tra coloro che ricevono il vero farmaco anziché il placebo di controllo.

E tanto basta a indurre una lieve spinta al miglioramento: quella rilevata dalle statistiche. Irving Kirsch sostiene dunque con discreto coraggio (e questo gli è costato l’ostracismo da parte di tutte le aziende produttrici di farmaci antidepressivi) che gli antidepressivi siano tutti placebo, senza distinzione.

In realtà almeno un po’ funzionano, ribattono i suoi detrattori. E poi come faremmo senza farmaci nei casi più drammatici? Certo, il placebo ha sempre funzionato, risponde Kirsch, e continuerà a farlo, ma per fortuna senza effetti collaterali.

Detto questo: di fronte alla carenza di una molecola, ha senso iniziare un trattamento farmacologico probabilmente molto lungo che nella migliore delle ipotesi (nella peggiore non servirà a nulla) offrirà solo una stampella temporanea a un sistema che non riesce più a reggersi bene in piedi?

No, non ha alcun senso

E soprattutto: ha senso se invece esiste un’alternativa di possibile guarigione perseguibile integrando tutte le nostre attuali conoscenze sull’argomento?

Le tre molecole sopra citate, pur avendo probabilmente qualche rilevanza nell’induzione o nella conservazione di uno stato depressivo, non rappresentano altro che mediatori di segnale eccitati (o inibiti) a rispondere a determinati stimoli. Le cause reali di una depressione abbiamo visto invece poter essere molteplici, e ciascuna di esse può essere in grado di alterare il delicato equilibrio esistente tra questi neurotrasmettitori.

Un medico di segnale non lavora con i farmaci ma cerca di concentrarsi sulle cause organiche che possono aver generato la patologia (senza mai dimenticare l’azione della psicoterapia): predisposizione genetica, stress, insufficienza tiroidea, sedentarietà, cattiva alimentazione, cronobiologia non rispettata. O sblocchiamo con una terapia integrata il circolo vizioso in cui il paziente è malauguratamente entrato o la guarigione resterà pura astrazione

Bibliografia: Medicina di Segnale

13 Kirsch I. I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Dalle pillole della felicità alla cura integrata. Milano: Tecniche Nuove, 2012.

Francesca Moretti
Francesca Moretti
Porto Sant'Elpidio
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Ho avuto la fortuna di incontrare Francesco... Mi ha ridato speranza, mi ha ricordato prima di tutto ad Amarmi e ad Apprezzare il Dono più grande che abbiamo. La nostra Vita! Un Anima Speciale, professionale sempre disponibile a donare se stesso e il suo sapere affinché tu possa star bene. Grazie AnimA! 🔥🌟

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