Zuccheri nel sangue
Cercando di capire quali siano i modi con cui le nostre scelte alimentari possono influenzare i nostri stati mentali, un posto di rilievo spetta all’azione svolta dall’insulina, prezioso ormone pancreatico coinvolto nella regolazione del livello degli zuccheri nel sangue e nella distribuzione degli zuccheri stessi alle cellule (2).
L’azione principale dell’insulina è quella del “pompiere” chiamato a spegnere un “incendio zuccherino” divampato nel nostro sangue.
Il livello ematico degli zuccheri è infatti controllato dall’organismo in maniera molto stringente: se è troppo basso, fa partire immediatamente a livello ipotalamico lo stimolo della fame così da ristabilire al più presto i valori corretti.

Se la glicemia è invece troppo alta, un segnale d’allarme viene tempestivamente inviato al pancreas affinché secerna la quantità di “pompiere insulina” necessaria a spegnere l’incendio.
L’insulina però ha un’azione complessa. Per capire il suo comportamento dobbiamo rifarci alle abitudini alimentari dell’uomo primitivo. A quel tempo le fonti di cibo ricche di zuccheri non erano così facilmente disponibili come oggi.
Non solo: non esisteva lo zucchero bianco raffinato (che oggi ritroviamo a palate anche in biscotti, succhi di frutta, bibite gassate, torte, gelati, merendine e perfino nei corn-flakes) ma nemmeno il “piatto di pasta” o la “ciotola di riso” (cibi amilacei, costituiti da zuccheri complessi).

Le sole fonti di zucchero potevano provenire dalla frutta selvatica o da singole spighe di grano integrale selvatico crude. Il nostro corpo e la nostra mente, dunque, considerano “normale” un livello di zuccheri nel sangue estremamente stabile ed equilibrato in relazione alle delicate funzioni che deve svolgere.
Un semplice esempio ci permette di comprendere a quale livello si tratti di “indigestione”.
I valori di glicemia, ossia la quantità di zuccheri disciolta nel nostro sangue in un dato momento, sono considerati normali quando compresi tra 65 e 110 mg/100 mL, cioè circa 1 g per litro di sangue.

Indigestione
Poiché l’individuo medio ha circa 5 litri di sangue (ma circa la metà di plasma), significa che ciascuno di noi dispone grosso modo di 2,5 g di zuccheri che circolano nell’intero organismo, tutti necessari e sufficienti alla normalità delle nostre attività metaboliche.
Quanti grammi di zucchero può contenere un bicchierone di una qualunque bibita gassata? Circa 25-30.
Tutti immediatamente assimilabili perché disciolti in acqua.
E che cosa succede al nostro sangue quando riceve dall’esterno (per di più in forma liquida, assimilabile in pochi minuti) un apporto cinque volte superiore alla concentrazione ematica massima consentita?

Il corpo si trova ad affrontare un “insulto” che dal punto di vista evolutivo gli è completamente sconosciuto. Quali risposte fisiche e mentali può generare un apporto tanto squilibrato?
I frequenti sbalzi insulinici producono una continua variazione nell’umore portando a stati mentali confusi, stanchezza frequente, pensieri negativi che spesso rappresentano l’anticamera dell’insorgenza di stati depressivi.
E soprattutto, come possiamo prevenire o evitare che ciò avvenga? Un eccesso di cibi zuccherini (in particolare se di immediata assimilazione) comporta l’intervento massivo dell’insulina con rimozione non del solo eccesso, bensì anche di una parte della normale quota di zuccheri disciolti nel sangue.

Perché questo avviene?
Questa condizione metabolica è chiamata “ipoglicemia reattiva”. In realtà noi possiamo trovarci in ipoglicemia per vari motivi, anche del tutto naturali (per esempio perché abbiamo consumato zuccheri con una lunga camminata).
Il corpo non distingue quale sia il motivo specifico, ma quando ciò accade provvede immediatamente a comunicare al cervello un segnale di fame, così che si provveda a ripristinare una condizione ideale attraverso l’assunzione di cibo.
Se però questo bisogno non viene rapidamente soddisfatto (per esempio perché stiamo lavorando e non possiamo interromperci per mangiare) le sensazioni mentali che percepiamo sono di stanchezza, irritabilità, sbalzi d’umore, tristezza, calo di energie, scarsa capacità di concentrazione e coordinazione.

Tutto ciò apre la porta in maniera decisa a stati mentali di tipo depressivo, che il nostro errato comportamento alimentare ha contribuito a generare e a rendere permanente. Proviamo a immaginare una situazione tipo.
Siamo appena rientrati a casa dopo una giornata di lavoro. A cena mangiamo un piattone di riso bianco (raffinato) con le verdure, cui seguono una fetta di crostata (industriale), qualche cioccolatino e un bel caffè ben zuccherato.
Un pasto del genere, composto di soli carboidrati a rapida assimilazione, comporta nel giro di un’ora circa un’ipoglicemia reattiva (cioè un calo degli zuccheri) con relativa sensazione di stanchezza e abbattimento e conseguente ulteriore voglia di dolciumi, che magari combattiamo a livello cosciente.

Alle 21.30 siamo già irritati con noi stessi e col mondo, ma neppure vogliamo andare a letto perché ci sentiamo tristi e insoddisfatti. Una grande stanchezza di vivere ci assale, quando d’un tratto squilla il telefono. Alcuni amici stanno uscendo e ci chiedono se vogliamo raggiungerli.
In pieno calo di zuccheri la sola idea di doverci cambiare e renderci presentabili ci atterrisce. Non ce la faremo mai. Rispondiamo che è un po’ tardi, si farà un’altra volta.
Poi, ancora più frustrati, apriamo la dispensa e tiriamo fuori di nuovo i cioccolatini per avere, almeno per mezz’ora, il temporaneo sollievo di un nuovo picco glicemico.

E il ciclo riparte
L’indomani, dopo una notte inquieta trascorsa a cercare di digerire senza successo, ci alzeremo ancora più stanchi e afflitti, così da non desiderare altro che un caffè (ben zuccherato) e una brioche.
E un paio d’ore dopo saremo daccapo: tristi, stanchi, frustrati, irritabili. La risposta mentale e comportamentale alla nostra cattiva alimentazione da occasionale è diventata cronica.
Il personale si è fatto sociale. E la depressione, subdolo male, si è intrufolata nelle pieghe di persone apparentemente normalissime ma con un’alimentazione qualitativamente scarsa e sbilanciata.
Non è un caso che Markku Timonen e colleghi, in un lavoro pubblicato nel 2005 (3), abbiano rilevato una correlazione marcata tra resistenza insulinica e stati depressivi.

Quando sentiamo una delle mille storie come questa, potrebbe essere ormai ora di capire che una modalità di intervento non farmacologica e non invasiva può affiancarsi a tutte le altre: il riequilibrio della propria alimentazione.
Una corretta alimentazione a fini plastici, nuovi interessi per se stessi, associata ad una piacevole attività fisica anche quotidiana.
Cercare do comprendere e/o farsi aiutare nella comprensione del messaggio nascosto legato al dolce, allo zucchero, oltre che alla rabbia repressa, rancore, che abbattono il sistema immunitario, la gioia di vivere.. creando separazioni interiore, dicotomie deleterie.

Bibliografia: Medicina di Segnale
2 Su questo argomento, e su altri qui di seguito affrontati, abbiamo già scritto molto. Si veda: Speciani A, Speciani L. Prevenire e curare la depressione con il cibo. Milano: Rizzoli, 2006.
3 Timonen M, Laakso M, Jokelainen J, Rajala U, Meyer-Rochow VB, Keinänen-Kiukaanniemi S. Insulin resistance and depression: Cross sectional study. BMJ. 2005;330(7481):17-8.

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